Con l’espressione “abbandono del tetto coniugale” si intende l’allontanamento di un coniuge, con o senza figli, dalla casa familiare, che mette fine alla coabitazione, uno degli obblighi nascenti dal vincolo matrimoniale.
Se due coniugi non convivono, non è possibile realizzare la “reciproca assistenza morale e materiale” menzionata nel codice civile e che è fondamentale in relazione alla famiglia.
Coloro che lasciano il coniuge, non possono in un secondo momento chiedere il mantenimento o rivendicare diritti ereditari.
L’abbandono della casa familiare si verifica in modo esclusivo quando si manifesta l’intenzione di non volere più ritornare nella casa coniugale.
Ai fini dell’addebito della separazione, quindi, non rileva quanto tempo decorra dall’abbandono del tetto coniugale, quello che conta è che in relazione a un simile comportamento, ci sia l’intenzione di non ritornare più.
Anche dopo una settimana si potrebbe configurare il comportamento che il diritto di famiglia vieta, se è seguita da dichiarazioni o atti che facciano pensare che si possa trattare di una volontà che abbia carattere definitivo.
In qualunque situazione, chi chiede l’addebito deve dimostrare che la crisi coniugale sia sorta come conseguenza dell’abbandono del tetto coniugale da parte dell’altro coniuge e non da altri motivi che esistevano in precedenza.
La giurisprudenza ha evidenziato che l’abbandono del tetto coniugale costituisce esso stesso un motivo sufficiente perché si determini l’addebito della separazione nei confronti del coniuge che ha posto in essere un simile comportamento, perché è conseguenza dell’impossibilità della convivenza, a meno che non si riesca a dimostrare che l’abbandono sia stato causa del comportamento dell’altro coniuge, oppure si è verificato quando proseguire la convivenza era diventato intollerabile.
Oggi si pone particolare attenzione alle tensioni nei rapporti tra coniugi e soprattutto alle cause che danno origine alle stesse. Anche la Giurisprudenza è diventata sensibile al tema, non seguendo più rigidamente la regola in base alla quale l’abbandono della casa coniugale determini in automatico l’addebito della separazione.
La Corte di Cassazione, sezione sesta civile, con l’ordinanza del 03/02/2022 n. 3426 ha enunciato il principio in base al quale “il volontario abbandono del domicilio familiare da parte di uno dei coniugi, costituendo violazione del dovere di convivenza è di per se sufficiente a giustificare l’addebito della separazione personale, a meno che non risulti provato che esso è stato determinato dal comportamento dell’altro coniuge o sia intervento in un momento in cui la prosecuzione della convivenza era già divenuta intollerabile ed in conseguenza di tale fatto”.
Nel caso di specie la Corte, pur dando atto dell’abbandono della casa familiare da parte della moglie, ha posto in risalto una serie di circostanze rimaste incontestate, ritenute dal Giudice idonee a dimostrare che l’interruzione della convivenza aveva in realtà rappresentato l’esito di una crisi familiare già in atto da tempo.
La sentenza impugnata ha infatti evidenziato: Il tentativo dei coniugi di procedere con un percorso assistito di mediazione avviato senza successo; l’invio di una comunicazione al marito da parte del legale della moglie per informarlo della decisione di quest’ultima di allontanarsi dal domicilio coniugale, nonché l’esistenza di una forte e persistente tensione tra i coniugi e di un clima di progressiva reciproca disaffezione.
L’assunto della Corte di Cassazione è condivisibile ed impone a chi abbandona il domicilio familiare, di assolvere all’onere probatorio a suo carico e cioè di provare che l’abbandono è stato determinato dal comportamento dell’altro coniuge (per esempio: altro coniuge violento) o sia intervenuto per un momento in cui la prosecuzione della convivenza era divenuta intollerabile.