Al momento stai visualizzando Somme elargite dai genitori anziani nei confronti dei figli conviventi: escluse dalla collazione delle donazioni?

Le somme elargite dai genitori anziani nei confronti dei figli adulti conviventi non configurano donazioni soggette a collazione se non se ne prova la liberalità. E’ quanto emerso dall’ordinanza n. 18814/2023 della Cassazione pubblicata il 4 luglio 2023. Nella vicenda, la Corte d’Appello di L’Aquila confermava la decisione del Tribunale di Teramo che accertava la lesione della quota di legittima spettante agli attori (due fratelli) sull’eredità della madre, per effetto delle donazioni fatte in vita dalla de cuius alla figlia (loro sorella), con lei convivente da più di vent’anni. Entrambi i giudici di merito, sulla base delle non dispendiose condizioni di vita della madre e dei redditi pensionistici superiori alle sue necessità quotidiane, pervenivano alla conclusione per cui la de cuius aveva elargito periodicamente del denaro a titolo di donazione alla figlia, accogliendo la domanda degli attori. La figlia veniva quindi condannata alla restituzione di quanto indebitamente ricevuto dalla madre durante la loro convivenza. I giudici di merito pervenivano a tale conclusione a seguito di espletamento, nel giudizio di primo grado, di una CTU, secondo la quale l’anziana donna, che godeva di buona salute, spendeva per il proprio mantenimento e per la cura della sua persona solo il 60% dei redditi percepiti, elargendo il restante 40% alla figlia convivente. La figlia condannata (anche) in secondo grado ricorreva quindi in Cassazione con due motivi di ricorso. Da una parte, censurava la sentenza di secondo grado per aver qualificato come donazione di denaro meritevole di collazione l’apporto ridotto e diluito nel tempo che la defunta madre le avrebbe conferito durante la convivenza, mentre con il secondo motivo di ricorso la figlia denunciava l’omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio, relativo alla stessa convivenza tra lei e la madre, fatto tale da impedire la configurabilità di una donazione.  La Suprema Corte, con l’ordinanza in commento, respinge la tesi dei due fratelli, avallata dai giudici di merito, e dichiara fondati entrambi i motivi di ricorso della sorella. I giudici di legittimità, nell’argomentare, riprendono la disciplina codicistica sulla collazione. Ai sensi dell’art. 737 c.c., ai fini dell’obbligo di collazione rilevano le donazioni, dirette e indirette, fatte in vita dal de cuius. A norma dell’art. 742 c.c., invece, non sono soggette a collazione, tra le altre, le spese di mantenimento, di educazione, quelle sostenute per malattia, quelle ordinarie per abbigliamento o per nozze, né le liberalità d’uso. Dunque, sebbene sia vero che sono soggette a collazione le donazioni di modico valore fatte da un genitore a un figlio (l’eccezione di cui all’art. 738 c.c. opera, infatti, solo per il coniuge), per far sì che certe somme siano soggette a collazione e/o a riduzione, è assolutamente necessario provare che ognuno di tali esborsi sia stato effettuato dal de cuius a titolo di liberalità. In mancanza di tale prova, continua la Corte, non è possibile né sottoporre a collazione né ridurre le elargizioni senza corrispettivo versate nei confronti di un soggetto convivente con il de cuius. Nel caso di specie, dato che nessuna prova era stata fornita dai fratelli in merito all’animus donandi della madre, cioè della sua consapevolezza di determinare un arricchimento della figlia convivente, non si poteva lamentare alcuna lesione della loro quota di legittima. Inoltre, il percorso logico argomentativo della Corte d’appello di L’Aquila non viene condiviso dai giudici di legittimità, bensìgiudicato come lacunoso. Infatti, i giudici di secondo grado, partendo da fatti noti (come la percezione del reddito pensionistico, la partecipazione alle spese della figlia convivente, le condizioni di vita estremamente modeste della madre), sono risaliti a fatti ignoti per cui la de cuius spendeva per sé stessa solamente il 60% dei redditi percepiti, e che il restante importo doveva ritenersi incassato dalla figlia convivente, mediante un ragionamento presuntivo non ammissibile.

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